Tetraktýs, semestrale di cultura musicale, Anno III, n. 4 settembre 1999

Musicoterapia, un’esperienza all’Ospedale Maggiore di Bergamo
Dal 1997 lavoro presso l’Ospedale Maggiore di Bergamo, nei reparti di pediatria, cardiochirurgia, oncologia pediatrica.
L’ambiente ospedaliero non mi ha permesso la strutturazione di un setting per avere gli spazi ed i tempi richiesti dalla musicoterapia. La possibilità di realizzare una comunicazione interpersonale che coinvolgesse le capacità attentive dei bambini è dipesa dalla flessibilità acquisita nell’iter di formazione che ha permesso di trasformare uno spazio di malattia in esperienza creativa. Quindi , pur non trattandosi di musicoterapia in senso stretto, il rapporto con i bambini si è dimostrato terapeutico.
Quando si entra nel reparto di un ospedale, oltre gli odori caratteristici che permeano l’aria, si è colpiti dalla malattia di chi è ricoverato. Tutti quelli che incontriamo, escluso il personale, sono malati. I bambini con i quali lavoro sono malati estremamente eterogenei, per età, dai pochi mesi ai quindici anni, e per malattia, che spesso ignoro, dalla semplice bronchite alle disfunzioni cardiache alla leucemia. Ciò mi impedisce di creare gruppi di lavoro omogenei. E’ stato quindi necessario trovare una visione della situazione che unificasse tutte le diversità, un denominatore comune che mi permettesse di relazionarmi e lavorare al di là dell’età e della malattia: considerare questi bambini come persone .
Questa è la prospettiva in cui mi sono posto: sono un musicista e il mio strumento è il suono. Il suono per sua natura è relazione: non c’è concerto senza pubblico (anche nelle prove c’è chi ascolta, io che valuto me esecutore), non c’è dialogo senza interlocutore. Ma è anche vero che non c’è relazione senza un vero ascolto. Ascoltare richiede volontarietà e si desidera ascoltare ciò che ognuno ritiene interessante e bello. La qualità del suono del mio strumento e della mia voce sono ciò che di bello ho per agire nella relazione tra me e queste persone. Il mio suono è bello perché come essere umano desidero relazionarmi e indirizzo la mia attenzione verso qualcun altro. Nel mio suono ci sono le mie tensioni corporee, le mie paure e le mie difficoltà, ma soprattutto la mia voglia di conoscere e di vivere. I toni puri dell’elettrocardiogramma, dei cicalini e i rumori stereotipati dell’ospedale non nascono dalla relazione umana e quindi non possono significare vita, ma solo malattia.
I suoni degli strumenti e dei giochi sono vita perché semplici, usati per ciò che sono: cose belle. Nella semplicità si trova la forza del gioco che può risvegliare un vero interesse. Un interesse che si radica nella vita, fatta di cambiamenti e diversità. E per cambiamenti non si intendono grandi stravolgimenti, ma piccole decisioni come quella di prendere il battente e suonare il tamburo, di non restare nel letto , ma volontariamente utilizzare la propria attenzione per far parte di un gruppo che gioca. Il cambiamento è nella decisione di non guardare la stanza dal letto ma di viverla in un girotondo.
Naturalmente la decisione di cambiare una situazione si ha quando le condizioni lo consentono e quando ciò che viene offerto può valere lo sforzo: il suono.
Il suono ci avvolge, ci penetra con la sua onda di energia, a volte ci invade, altre ci rassicura, come ci rassicuravano i suoni della vita nel grembo materno; il ritmo ternario del cuore, il binario dei passi di nostra madre (provate a camminare a piedi nudi tappandovi le orecchie), i gorgoglii della digestione o il suono del respiro. Questa orchestra, sempre in funzione, ci ha cullato con le sue vibrazioni, che non potevamo sentire con le orecchie perché immersi nel liquido amniotico, lasciando una traccia nella memoria del vissuto del nostro corpo. La vibrazione del suono che ci raggiunge per via aerea tramite il timpano, per via ossea o per risonanza corporea, trasmette e cede al corpo l’energia insita nell’onda sonora. Vibra la pelle di un tamburo quando percosso e convibriamo noi, come risuonatori, nel ricevere questo suono.
Siamo abituati a pensare all’ascolto riferito all’orecchio come unico canale, ma in realtà le frequenze che il nostro timpano distingue vanno dai 580/600 Hz. in su (V ottava del pianoforte) perché al di sotto la sua vibrazione è indistinta e quindi il timpano è in difficoltà a decodificare ciò che l’aria ci trasmette (Ologramma della membrana timpanica effettuato con granelli di carbonio “Manuale di Audiologia” op. cit.). Le prime formanti e gli armonici al di sotto di questa soglia ci raggiungono attraverso altre strade. E’ sufficiente prendere un diapason ed appoggiarlo sulla fronte, in un punto dove la pelle è più sottile, per sperimentare l’efficacia della trasmissione ossea (anche nel nostro orecchio il timpano trasmette la sua vibrazione ad un meccanismo osseo, staffa e martelletto, per poi raggiungere la coclea).
C’è inoltre da fare un’altra considerazione : a seconda della frequenza dell’onda sonora cambia la penetrazione e la conseguente trasmissione di energia, cioè l’assorbimento, dell’onda nel nostro corpo. Ma al contrario di un pezzo di metallo o di legno che hanno il loro assorbimento specifico delle varie frequenze, il corpo umano si modifica ad ogni istante nella sua compattezza per il cambiamento continuo dello stato tonico-emotivo che in quanto esseri viventi abbiamo.
In ogni momento cambia il modo in cui riceviamo i suoni, perché cambia la nostra relazione con il mondo intorno a noi. Se, ad esempio, camminando per strada passiamo in parte ad un martello pneumatico in funzione, istintivamente ci ripariamo abbassando il capo o chiudendoci nelle spalle od offrendo il fianco alla fonte sonora, cioè la minor superficie possibile, e così tutti i nostri muscoli si tendono un poco per difenderci da questa intrusione. Questo è chiaramente un esempio limite verso qualcosa di estremo per intensità e frequenza, ma si potrebbe applicare anche al timbro o alla durata.
Per raggiungere una persona con il suono è necessario scegliere l’altezza, l’intensità, la durata ed il timbro che si desidera utilizzare. Se la scelta avviene in base al mio gusto particolare difficilmente otterrò attenzione da chi ho di fronte. Se, al contrario, prima di suonare ascolto come si sente questa persona, leggo la postura e le tensioni muscolari, manifestazioni del suo stato interiore, come se fossero una partitura che mi richiede studio ed interpretazione, e cerco l’altezza, il timbro, l’intensità, il ritmo che rispecchiano l’essere umano che ho davanti a me, il risultato sarà sicuramente diverso. Offrendo la mia attenzione verso un bambino è facile che lui mi rivolga la sua. Un gioco che spesso faccio con bambini che non conosco, ma non cambia il discorso per gli adulti, è di utilizzare un grosso tamburello (55 cm. di diametro, piatto) con un suono molto grave. Chiedo ai bambini di chiudere gli occhi e mi avvicino, senza che loro l’abbiano visto, pongo il fondo del tamburo a pochi centimetri dal loro corpo e suono. La frequenza è così bassa da dare, penetrando nel corpo, una sensazione quasi di solletico sulla pelle. Se a questo punto sbaglio il tocco o il ritmo il bambino si spaventa e si chiude perché gli è stata chiesta fiducia (chiudere gli occhi in presenza di un estraneo e non temere ciò che si farà, in generale è una richiesta di grande fiducia ma è ancora più significativa in ospedale dove i malati sono soggetti ad iniezioni, proprio quando non vedono perché effettuate sulle natiche, flebo e intrusioni o dolori fisici ) e questa fiducia viene tradita, irrimediabilmente, da una mancanza di attenzione nei suoi confronti. Attenzione per cogliere come è lui e quindi quale è il tocco che si adatta al suo corpo. Per tocco non intendo solo l’intensità misurabile in decibel, ma il gesto del mio braccio, o meglio di tutto il mio corpo, che rispecchi esattamente il suo tono corporeo. Se suono per una bambina di sette anni tranquilla e sciolta, il mio corpo deve sciogliersi, tranquillizzarsi ed allontanare le tensioni che eventualmente lo abitano, perché al contrario i colpi sarebbero invadenti e invece di raggiungerla la trapanerebbero come il martello pneumatico di prima; se subito dopo suono per un bambino di otto anni che sembra pronto a duellare con la spada e i suoi muscoli si dispongono a scattare, se decido di utilizzare ancora il tamburo, il mio braccio deve prendere forza e trovare la sua stessa prontezza, alla quale non corrisponde necessariamente una grande differenza di intensità, ma soprattutto di tocco. Un bambino piccolo ha chiaramente una massa corporea notevolmente inferiore a quella di un adulto, quindi la sua percezione di un suono si discosta notevolmente da quella di un adulto: la stessa energia sposta due corpi di massa differente in modo differente; per ottenere lo stesso risultato di percezione su di un adulto dovrei utilizzare frequenze ancora più basse con una intensità notevolmente superiore, è un problema di grandezza e di frequenza dell’onda. Poi nascondo il tamburo e occupo la sua testa chiedendogli che cosa era o che forma avesse, ma questo non ha importanza: sono già in relazione con lui e la relazione è fisica, anche se non ci siamo toccati, bella perché quel musicista è qui non per farsi ascoltare, ma per permettere a me bambino di ascoltarmi. Poi il bambino verificherà la continuità della mia attenzione nei suoi confronti con i giochi che gli proporrò e questo fa parte della conduzione della lezione.
Il rispecchiamento, la capacità di leggere e di relazionarsi sul piano corporeo tramite il suono, deve però essere accompagnato dalla visione chiara di dove desidero condurre il bambino: il leading.
Tramite il rispecchiamento posso far decidere al bambino di dedicarmi attenzione, ma questa disponibilità bisogna portarla a frutto. Il primo esempio di leading sonoro è che nel gioco di prima del tamburo quando lo suono nuovamente ad occhi aperti, se il bambino è troppo teso, posso adottare due strategie: la prima è quella di suonare adeguandomi al tono corporeo, trovare la postura ed i gesti che si adattino alla situazione tonico-emotiva che è vissuta in quel momento dal bambino, poi lentamente rilassarmi per sciogliere il mio corpo e il mio suono, mantenendo l’offerta di relazione e di attenzione nei suoi confronti, ad esempio con lo sguardo e la postura del mio corpo, così da permettergli di diminuire le sue tensioni; la seconda di irrigidirmi, suonare forte e contratto, accentuare la sua agitazione, come arrivare in cima ad una salita insieme in bicicletta scaricando la forza non necessaria, e dopo condurlo al rilassamento e all’ascolto.
In questo caso il termine ascolto assume molteplici significati. E’ si sentire gli eventi sonori che ci circondano ma è anche uno modo di essere, di relazionarmi con il mondo e con me stesso. Ascolto è in primo luogo ascolto di se stessi, del bisogno di partecipare alla vita che ogni essere umano ha oltre le paure, le difficoltà, i ruoli sociali che acquisiamo nella nostra vita, per realizzare un “piccolo lavoro”, come suonare uno strumento, con tutta l’attenzione di cui siamo capaci, con tutto il nostro essere: vivere un’esperienza. Il suono che viene prodotto, la qualità del gesto dirà a me la qualità del suo ascolto, quali sono le difficoltà, indipendentemente dalla sofferenza fisica, che la malattia alimenta. Saprò ascoltare e leggere ciò che mi viene detto dal corpo e dal suono del bambino nel momento in cui io “ascolto”, io sono in relazione con me stesso.
Quello che il bambino manifesta, instaurata questa relazione con se stesso e me, è creativo perché frutto di reali e volontarie necessità comunicative. La scelta degli strumenti e di come utilizzarli diventa conseguenza tecnica delle emozioni da esprimere.
Vorrei raccontarvi di E. bambina di otto anni malata di leucemia. La prima volta che la incontrammo era in isolamento da una settimana. Entrammo in camera sua con i camici e le mascherine sulla bocca, le soprascarpe e tutti gli strumenti disinfettati. E. non ci conosceva ma da subito non percepì il nostro ingresso come una intrusione. Incominciammo a giocare; lei era bellissima due occhioni grandi, pentranti e i boccoli che coprivano le spalle, sorrideva e ci dedicò tutta la sua attenzione per un’ora intera. Giocammo con le piastre sonore, i legnetti, i tamburi, le palle di gomma fatte scivolare su tutto il corpo, cantammo. La relazione si manifestava nell’intesa sincronica dei movimenti fra tutti e tre e soprattutto dal suono cristallino delle risa. La profondità degli sguardi ci teneva vicini alla vita e alla malattia facendo convivere, una in parte all’altra, queste realtà.
Passarono tre settimane in cui non ci potemmo incontrare. E. era stata sempre in isolamento, per i valori troppo bassi delle sue difese immunitarie. Arrivando ci salutó e distolse subito lo sguardo, i capelli erano lunghi pochi centimetri, con la mano ne prese una piccola ciocca che, senza sforzo, le restó tra le dita; guardando la mia collega le disse: “Cadono” e riabbassó lo sguardo. Si sedette sulle gambe della madre, ma sarebbe meglio dire nel grembo, perché la sua schiena si abbandonava al ventre della madre, che la abbracciava da dietro. Era dimagrita, molto. Da cinque giorni i medici le avevano tolto l’isolamento, ma lei non aveva voluto uscire dalla stanza: era la prima volta da piú di un mese. La perdita dei boccoli la stava costringendo ad una nuova immagine sociale di se stessa, lei non era piú la bambina cui dire: “Che bei capelli”. Un mese di “carcere” , sicuramente necessario, le aveva tolto il gioco,le impressioni dei colori, dei suoni e delle persone, le aveva portato dolore fisico. Ma chi era adesso? Il dolore fisico si sopporta quando abbiamo un obbiettivo. Ma lei, ora, cosa aveva da fare? Qual’é il ruolo di un malato, perché tutti vedono che sei veramente ammalato, fuori dall’ospedale. Come mi guardano gli altri e che tipo di relazione posso instaurare ora, sono ancora una persona o il ruolo sociale di malato annulla tutto il mio essere? Posso ancora far convivere la vita e la malattia o, d’ora in avanti la seconda fagociterá tutto?
Solo lei poteva trovare interiormente un nuovo equilibrio tra se stessa e la sofferenza della malattia. Noi eravamo il primo test per vedere come avrebbe reagito il mondo al suo nuovo status. I suoi occhi non mi cercavano piú mentre giocavamo, ma tutte le volte che le chiesi il suo sguardo non me lo negó: ora aveva paura di che cosa avrebbe potuto trovare nei miei occhi.
Incominciai a proporle delle piccole melodie da riconoscere con le piastre sonore, che sebbene implichino attenzione non richiedono un coinvolgimento troppo personale Anche lei volle suonarle mentre io, a occhi chiusi, dovevo ritrovare la melodia. . Il suo suono era vellutato, morbido. Poi le proposi il tamburo, ma scoprii che aveva un forte mal di pancia e sicuramente non era il caso, in quel momento, di portare le vibrazioni del tamburo sul dolore. Non potevamo farla alzare, era troppo debole, e incominciammo a giocare con le palle ed i legnetti. Il gioco semplice di far rotolare e lanciarsi l’un l’altro i legnetti sul tavolo mentre io suonavo, la fece staccare da sua madre, raddrizzare la schiena e ridere. Mi sembrava che il mio suono rimbalzasse su di lei, che veramente fosse inattaccabile nella sua sofferenza. Incominciai a suonare solo per accoglierla, per farle sentire che noi eravamo lí, non le chiedevamo nulla e lei, per noi, era la stessa persona della volta scorsa, semplicemente faceva cose diverse. Quando aveva mostrato alla mia collega la ciocca di capelli se la risposta avesse contenuto un pur vago sentimento di pietismo (ad esempio un “poverina”) difficilmente avrebbe accettato di giocare con noi per 45 minuti, tempo lunghissimo date le sue condizioni. Ci salutó con un sorriso, tenuta per mano dal padre e dalla madre : aveva avuto la sua risposta qualunque essa fosse. Gli occhi dei genitori, provati da un mese molto particolare, ci guardavano piú tranquilli e affettuosamente la accompagnarono in camera.
E’ opportuno specificare che é stato usato il plurale perché si lavora generalmente in due persone.
Un musicoterapeuta é piú legato allo strumento armonico, mentre l’altro é piú prossimo al bambino interagendo direttamente come la situazione richiede.Questo modo di lavorare é definito della teoria della“Circolaritá Relazionale” secondo la metodologia Cremaschi -Colpani.
Prima di presentare un’altra esperienza, ci tengo a sottolineare che questo lavoro é stato svolto grazie alle insegnanti di scuola che sono presenti in questi reparti. La loro preparazione culturale umana e professionale va ben al di lá di ció che é richiesto dal loro ruolo della pubblica istruzione e svolgono un lavoro di grande valore umano.
Ero solo, con tre bambini di otto, dieci, quattordici anni, in Cardiochirurgia, e giá da circa 30 minuti stavamo giocando. Entró G., 12 anni, sulla sedia a rotelle, spinto dalla madre e dalla sorella maggiore; la mascherina che gli copriva la bocca e il naso nascondeva gran parte dello scarno viso, la colonna vertebrale non reggeva il seppur minimo peso del busto e il braccio sinistro si appoggiava per non farlo cadere di lato. Lo salutai, ma terminai il gioco con gli altri bambini: avevo bisogno di qualche istante per sentire che cosa avrebbe potuto risvegliare il suo interesse. Senza coinvolgerlo direttamente proposi agli altri bambini di suonare il tamburo. Eravamo in cerchio, lui era alla mia destra e di proposito incominciai dal bambino alla mia sinistra , lasciandolo per ultimo. Dopo i primi tre colpi la sua testa si era giá raddrizzata e quando fu il suo turno mi posi davanti a lui, come se nulla fosse, con il tamburo in mano offrendogli il battente. Fu un momento molto delicato, doveva decidere se mantenere la sua situazione com’era o partecipare al gioco. Il suo sguardo mi penetró per scoprire se io sapevo che cosa gli stavo proponendo. Per suonare si doveva raddrizzare, riportare il suo peso sulla colonna vertebrale, dare forza alle braccia che erano abbandonate sui braccioli. Lentamente, sembrava che il suo corpo non si ricordasse piú come si faceva a coordinare i movimenti, prese il battente. Ai primi tentativi non riuscí neanche a suonare e questo gli provocó frustrazione. Incitato dalla madre e dalla sorella ritentó e un suono debole, ma carico di un grande sforzo ci raggiunse tutti. Gli chiesi di suonare piú forte, mi guardó e nei miei occhi trovó la sicurezza incrollabile che lui avrebbe potuto suonare ancora e piú forte. Suonó ancora con una mano e poi con l’altra. Ci guardó e vide me ed i bambini felici di ascoltarlo, sorrise volgendosi indietro verso la madre. Chiesi a tutti di chiudere gli occhi, presi il flauto a coulisse e suonai. Sentii finalmente la sua voce ruvida ed impastata che mi chiedeva il flauto. Lo disinfettammo e glielo porsi, si tolse la mascherina da solo; ora ero io titubante perché richiedeva una coordinazione di molte parti del corpo e temevo la sua frustrazione. Gli mostrai come suonarlo, lui lo prese ed animó il suo corpo raddrizzandosi, appoggiando il peso anche sui piedi ed allontanando il tubo della flebo. Suonó, prima impercettibilmente poi piú forte riempiendo il torace di aria raddrizzando il busto ed inevitabilmente ridendo con noi e con la madre e la sorella. Tutti eravamo molto toccati, i bambini per primi, che vollero poi suonare tutti il flauto.
Dopo poco G. se ne andó, era visibilmente stanco, salutó tutti , la sua voce era debole ma chiara e piena di armonici come quella di un bambino.
Era martedí, tornai il giovedí con molti giochi preparati per lui. Non potemmo utilizzarli .
Mi tocca molto pensare che sono stati i suoi ultimi sorrisi.

Carlo Sinigaglia

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- Cremaschi Giulia 1996 “Musicoterapia, arte della comunicazione”, Ed. Scientifiche Magi, Roma
- Colpani Simona 1994-1995 “Un nuovo approccio alla disabilità: l’uomo sintattico” Università Cattolica del - Sacro Cuore facoltà di Magistero laurea in Pedagogia Milano
- Lowen Alexander 1995 “Il linguaggio del corpo” Ed. Feltrinelli Milano.
- Righini Pietro 1970 “L’acustica per il musicista” Ed. Zanibon Torino
- Del Bo M., Giaccai F., Grisanti G. 1980 “Manuale di audiologia”, Masson, Milano
- Merleau-Ponty M. 1965 “Fenomenologia della percezione”, Il Saggiatore Milano